Il libro di cui vi parlo oggi si chiama “Abbandonare un gatto “ed è stato scritto da Haruki Murakami. Murakami dice che è un libro che aveva in testa da un po’ di tempo ma che ora è riuscito a buttare su carta. Il titolo può sembrare triste e malinconico ma non lo è. Attraverso il ricordo di una gatta, che in principio doveva essere abbandonata, ricorda la sua infanzia e la storia di suo padre. Le vicende del signor Murakami, infatti, sono quelle di un ragazzo giapponese dal carattere pacifico e dedito alla poesia. Il signor Murakami, che avrebbe voluto passare il suo tempo scrivendo Haiku, per varie vicissitudini burocratiche si ritrova ad essere arruolato nella guerra con la Cina, prima, e la Seconda guerra mondiale poi. In età adulta si vede costretto a prendere la guida del tempio di Kyoto, per succedere al padre, essendo l’unico di sei figli a mostrare la giusta serietà e responsabilità. Peccato che fosse un ottimo insegnante con il desiderio di fare il veterinario. Con una descrizione limpida, equilibrata e piacevole delle vicende finisce per descrivere sé stesso; evidenziando similitudini e differenze con il padre. Del resto come lui stesso afferma è nell’età adulta che si possono fare queste considerazioni: solo dopo l’adolescenza si capisce che ciascuno è fatto a suo modo.
“Comunque, dopo aver detto addio alla gatta sulla spiaggia di Koroen, mio padre ed io ce ne tornammo a casa. Scesi dalla bicicletta, un po’ dispiaciuti ma rassegnati – non c’era altra soluzione -, apriamo la porta di casa e chi vediamo lì, a coda dritta, ad accoglierci con un affabile <<Miao>>? La gatta che avevamo appena abbandonato! Ci aveva preceduto, era tornata! Come accidenti aveva fatto? Senza contare che noi eravamo tornati in bicicletta! Anche mio padre era stupefatto. Per qualche secondo restammo senza parole. Ancor oggi rivedo l’espressione attonita di mio padre in quel momento. Ma subito la sua sorpresa si mutò in ammirazione, e poi in sollievo. Insomma, decidemmo di tenere la gatta. Visto che aveva fatto tutta quella strada, se lo meritava, dovevamo ammetterlo.”
“Mia madre diceva spesso: <<Tuo padre ha una mente brillante>>. Non so quanto fosse davvero intelligente, né lo sapevo allora e, per dirla tutta, non è una cosa che mi interessi. Per una persona che fa il mio mestiere, cioè, che qualcuno sia più intelligente o meno non ha molta importanza. Perché per scrivere è necessario essere dotati, più che di intelligenza, di libertà di spirito e di una forte intuizione. Di conseguenza non mi succede mai di dividere le persone in intelligenti o meno. In questo sono molto lontano dal mondo accademico. Comunque, è un fatto che tutta la carriera di mio padre è stata davvero eccellente.”