Il Giappone. Basta il nome del Paese per evocare un mondo lontano, irreale e misterioso. E una volta calpestato il suo suolo si scopre che è realmente così. Ci si guarda intorno e si osserva un labile equilibrio tra modernità e tradizione, tra tensione verso l’Occidente e spiritualità orientale: la dualità regna sovrana e se si è attratti da qualcosa, inevitabilmente lo si è subito dal suo opposto. Tuttavia, se all’arrivo ci si sente spaesati e si cerca con determinazione di comprendere ciò che ci circonda, alla partenza si realizza che non sempre la conoscenza razionale è la strada da intraprendere, molto spesso è quella sensoriale e istintiva che regala le migliori sorprese e i migliori ricordi.
Un’esperienza davvero unica è stato l’incontro con la cucina giapponese, quella vera, assaggiata nei locali non turistici, dove esiste solo il menù in giapponese e ordinare diventa una sfida. Fondamentale la disponibilità degli avventori a spiegare, utilizzando diverse lingue e molte volte gesti, quello che è contenuto nelle varie pietanze per permettere di conoscere e apprezzare il ‘sapore’ autentico del Giappone. Uno strumento davvero utile per districarsi tra le varie prelibatezze che il Paese del Sol Levante offre, l’ho scovato per caso, o forse no, una volta rientrata in Italia.
Si tratta di un libro intitolato ‘Yocci’s menu’ e illustrato da Yoshiko Noda, un‘artista giapponese che ho scoperto abitare in Italia. Sfogliando le pagine colorate dalla grafica accattivante, si possono apprezzare gli splendidi disegni che descrivono i piatti della tradizione giapponese, a partire dagli ingredienti fino alle istruzioni per cimentarsi con la loro preparazione. Non possono mancare gli onighiri, gli appetitosi triangoli di riso con un ripieno gustoso che varia a seconda della tipologia scelta, come è dettagliatamente descritto nel libro, i colorati e invitanti maki-zushi, diventati ormai un cibo di culto nel mondo occidentale e i deliziosi mochi, dolcetti tondeggianti a base di riso con un cuore di anko, un composto cremoso e stuzzicante a base di azuki (fagioli rossi), che per la loro bontà creano letteralmente dipendenza.
Lo zen pervade il Giappone. Lo si comprende passeggiando nei curati e rilassanti giardini, numerosi soprattutto nelle grandi città come Tokyo, incoraggiano il distacco dalla vita frenetica metropolitana e donano attimi di pura meditazione. L’immagine del giardino Hama-rikyu Onshi-teien è ancora fissa nella mia mente, un’oasi verde scintillante con al centro un incantevole laghetto che racchiude un piccolo e inestimabile gioiello: la casa da tè Nakajima no Ochaya.
Entrando il tempo si ferma. L’arredamento è minimale, essenziale tipico dello zen. Il tatami, il tradizionale pavimento di paglia di riso, invita a sedersi per abbandonarsi a un rito millenario, quello della cerimonia del tè: viene servito in una raffinata ciotola da accogliere con entrambe le mani, è amaro perché bisogna sorseggiarlo alternando piccoli bocconi di un morbido dolcetto mochi, ad ottenere un equilibrio di gusto perfetto.
Il Museo dello Studio Ghibli ‘vale veramente il viaggio’, come direbbero i siti specializzati in promozione turistica. Tuttavia, in questo caso, il turismo vero e proprio c’entra veramente poco. Si tratta, bensì, di una sorta di pellegrinaggio verso un luogo che negli anni è diventato ‘Il regno dei sogni e della follia‘ come recita il titolo del documentario di Mami Sunada dedicato allo Studio di Animazione Ghibli e ai suoi fondatori: i maestri, sensei in giapponese, Hayao Miyazaki, Isao Takahata e il produttore Toshio Suzuki. A custode del ‘regno‘ è posto Totoro, il personaggio più conosciuto, è lui che consente l’accesso a un mondo magico e inebriante. Una volta entrati si può assistere alla proiezione di un cortometraggio inedito (e proiettato in esclusiva) in una piccola sala cinematografica a misura di bambino, in cui gli appassionati provenienti da ogni parte del mondo, sono estasiati dalla visione di qualcosa di irripetibile che fa sorridere, sognare ed emozionare.
Ne ‘Il Castello errante di Howl‘, uno degli anime di Hayao Miyazaki, è approfondito il tema del viaggio fantastico alla ricerca di se stessi e del proprio luogo di appartenenza. I disegni, effettuati ancora rigorosamente a mano, raffigurano in modo sublime spettacolari paesaggi che rapiscono letteralmente lo spettatore per tutta la durata del film e mentre scorrono i titoli di coda si provano le medesime sensazioni di quando ci si risveglia dopo un coinvolgente e strabiliante sogno.
Tokyo è una città immensa, ma organizzata alla perfezione in quartieri, secondo la regola della specializzazione: Akihabara per l’elettronica, i manga e i cosplayer, Ginza per l’architettura e le boutique, Tsukiji per il mercato del pesce. Pertanto, non poteva assolutamente mancare un intero quartiere dedicato ai libri, Jinbocho, con oltre 150 librerie in cui trovare di tutto, dai libri rari, alle xilografie ukiyo-e fino ai casi letterari contemporanei. Il consiglio è ritagliarsi qualche ora da dedicare alla scoperta di questo paradiso dei lettori; la maggior parte dei libri sono in giapponese, ma non bisogna farsi scoraggiare dalla barriera linguistica, in quanto entrando nelle librerie più antiche si possono scovare veri e propri tesori apprezzabili anche senza saper leggere gli ideogrammi, come i manga del periodo Edo (1603 – 1868). L’acquisto è impensabile dal momento che i prezzi sono proibitivi, ma mostrando interesse si riesce a conquistare la simpatia dei librai che si rendono disponibili a mostrare dei veri e propri capolavori illustrati: volumi con intere storie, quaderni di schizzi preparatori delle espressioni facciali, dei movimenti degli arti e delle innumerevoli raffigurazioni del Monte Fuji.