Monza , Autodromo
Monza, 1993.
Avevo diciassette anni e un pass appeso al collo quando, dopo una giornata di trepida attesa, ebbi finalmente accesso all’area dei paddock. Il pass me l’aveva procurato Lucio, un amico di mio zio Roberto. Quel giorno l’avevo trascorso in giro per l’autodromo in attesa che Lucio finisse di lavorare. Non era la mia prima volta a Monza, ma lo era in una zona ad accesso tanto riservato.
Una luce calda, la luce malinconica dei pomeriggi di fine estate, aveva investivo il circuito, colorandolo d’oro.
Si era fatto tardi e sebbene i piloti fossero già rientrati, i box brulicavano di vita. Meccanici instancabili erano al lavoro per apportare modifiche e migliorie ai quei fragilissimi gioielli.
Ricordo il mio ingresso nei box della McLaren e io, che me ne stavo lì, in piedi, immobile, trattenendo il respiro, accanto alla F1 di Ayrton Senna.
E’ancora impresso nella mia mente l’attimo in cui sfiorai appena il telaio freddo con la punta delle dita, animata dalla stessa reverenza con cui un pellegrino, dopo giorni e giorni di viaggio, senza sentire la fame o patire la sete, avrebbe accarezzato il piede della statua del santo patrono.
(Dalla raccolta “Kore”, come polaroid rovesciate da una scatola in ordine sparso. Un esperimento di scrittura narrato in prima persona attraverso un mosaico di episodi.)