Donne come noi, un libro nato dalla community. L’intervista ad Annalisa Monfreda

Dal 21 al 23 settembre si è svolto a Firenze il festival culturale “L’Eredità delle Donne”, sotto la direzione artistica di Serena Dandini. Nel vasto programma della rassegna è stato presentato un progetto legato alla scrittura, che attraverso la community si appropria della rete: Donne come noi, un libro, ma soprattutto un fenomeno in grado di lanciare un nuovo modello, non solo innovativo ma rivoluzionario. Cento donne che con le loro storie hanno contribuito ad abbattere gli stereotipi di genere, cogliendo l’opportunità di cambiare il mondo attraverso l’arte. A seguito della presentazione presso la Biblioteca delle Oblate, ne ho parlato con Annalisa Monfreda, direttrice di Donna Moderna, ideatrice di questa raccolta nata dalla collaborazione tra il magazine del gruppo Mondadori e la casa editrice Sperling & Kupfer. Attraverso l’analisi di alcuni aspetti legati alla community, al confronto e all’interazione tra giornalista e lettore, il dibattito con Annalisa Monfreda si è esteso alle forme di comunicazioni nascenti e al rapporto tra giornalismo e pubblicità.

Donna Moderna ha lanciato un interessante progetto culturale, Donne come noi, che lega scrittura, arte e formazione attraverso una community tutta al femminile. Mi racconta come ha preso forma questa idea?

L’idea della comunità è stata da sempre l’idea forte del giornalismo femminile. La crisi del giornalismo infatti ha investito molto più il cosiddetto magazine maschile, in quanto le donne sentono da sempre il bisogno di aggregarsi, probabilmente perché avendo occupato un ruolo minoritario nella società la comunità ha rappresentato nel tempo lo strumento per dare voce ai loro problemi. E quella di Donna Moderna è stata nel tempo una comunità molto forte. Successivamente è arrivato il web, la comunità che prima era legata al giornale si è legata ai social. Alla nostra redazione questo piace, ma ci rendiamo anche conto che avere un milione di fan su facebook è qualcosa di molto più dispersivo rispetto a ciò che era prima. Abbiamo quindi pensato di creare una comunità più solida, che paradossalmente, nell’era del digitale e del virtuale, torna a incontrarsi fisicamente per mezzo di un libro. Il libro ha generato comunità prima tra le cento donne delle storie, durante le presentazioni, poi con i lettori, infine col pubblico presente a teatro.

Quanto vi ha ispirato il fenomeno delle comunità che negli anni trenta erano nate con le prime riviste femminili?

Non siamo stati ispirati da quello che era successo. Tutti coloro che oggi si occupano di comunicazione e di vendita sanno che è fondamentale creare una community che si identifichi in un brand ed è una cosa non semplice perché è complicato realizzare dei valori comuni. Invece Donna Moderna ha una coerenza fortissima perché è un giornale da sempre ancorato ai suoi valori, che non è mai degenerato, che non ha mai comunicato l’immagine sbagliata delle donne. Questo fa sì che il nostro magazine abbia una credibilità profonda che ci arriva dalla storia. Ed è bello sapere che quando facciamo una cosa i lettori credono in noi.

Donna Moderna è un settimanale letto dalle donne di tutte le età, mi dice qualcosa al riguardo?

Anche questa cosa è bellissima. La lettrice di Donna Moderna non rientra in un target, né per l’età né per l’estrazione sociale. L’ho potuto notare osservando le mille persone venute a teatro in occasione della rappresentazione di Donne come noi. C’erano donne di tutte le estrazioni sociali: dalla importante parlamentare del passato, Livia Turco, venuta di propria iniziativa, alla portinaia o all’infermiera. Questa cosa ci entusiasma perché ci fa capire che le istanze delle donne sono uguali, indipendentemente dal livello sociale e dalla professione svolta. Tutte hanno gli stessi identici problemi.

Prima, in occasione della presentazione, lei aveva evidenziato che il progetto legato alla community andrà avanti negli anni a venire, avete già un programma?

Stiamo ragionando su come proseguire questo percorso e l’idea di fondo è quella di proporre un’offerta formativa da sostituire all’idea di ispirazione, che invece comprendeva la creazione del libro e dello spettacolo teatrale. Quest’anno infatti abbiamo già proposto un ciclo formativo di quattro giorni e in quell’occasione ci siamo resi conto che le donne hanno una fortissima necessità di formazione destinata in qualche modo a capire come lavorare in gruppo, come fare emergere il proprio potenziale, come raccontarsi, come organizzare il proprio tempo e le proprie risorse. Quindi il capitolo formazione sarà sicuramente quello principale che porteremo avanti.

In che modo avete scelto le storie raccolte nel libro?

Abbiamo scelto storie di donne che oltre ad aver avuto successo nella vita, avevano soprattutto qualcosa da raccontare alle altre donne. Abbiamo selezionato quelle degli ultimi tre anni, e non è stato difficile assemblarle. La cosa bella è che adesso noi continuiamo a raccontare storie. E in Italia ce ne sono un’infinità.

Quanto e perché ci si identifica nei racconti di queste donne?

È facile identificarsi perché le storie raccontate vengono da donne del presente, che pur avendo fatto cose sensazionali vivono le loro vite quotidiane con i problemi di noi tutte e diventano fonte di ispirazione, anche rispetto alle grandi donne del passato in cui il tempo trascorso lega quelle vicende più al romanzo che alla vita comune.

 Passando al rapporto tra giornalismo e pubblicità, attualmente i media digitali hanno progressivamente eroso il mercato dell’editoria, prima maggiormente finanziato dal lettore, oggi dalle aziende. Quali strategie ha adottato Donna Moderna per contemperare le esigenze della produzione di un buon giornalismo con quelle del necessario autofinanziamento?

Io non ritengo che le due cose siano in contrapposizione tra loro, non necessariamente. Possiamo dire innanzitutto che esistono due tipi di giornalismo: il giornalismo fatto per i lettori e il giornalismo che ha come modello di business quello pubblicitario. Nella prima tipologia rientra Donna Moderna, in cui il finanziamento di buona metà del margine della testata deriva dai lettori che lo acquistano; questa cosa la percepisce perfettamente anche la pubblicità che non ci chiederà mai di snaturare il prodotto, perché sa che nel momento in cui ciò dovesse accadere il valore del giornale finirebbe e noi smetteremmo di venderlo. Nella seconda tipologia di giornalismo rientrano quei giornali che hanno come modello di business quello pubblicitario, che vendono pochissime copie e che quindi è chiaro che debbano rispondere più ai modelli pubblicitari che al lettore, ma quella è la loro natura e sono acquistati da un pubblico che ha la stessa sensibilità del cliente pubblicitario. Invece il cliente pubblicitario che si avvicina a Donna Moderna vuole comprare non soltanto la sua capacità di comunicare con un pubblico molto ampio, ma anche la sua capacità di trasmettere dei valori. Alcuni brand pubblicitari sono venuti da noi chiedendo di sponsorizzare progetti di altissimo giornalismo, come un long form sulla dislessia interamente finanziato da Lancôme dove noi siamo riusciti a produrre video di altissimo valore, e a fare un grandissimo giornalismo. Il brand vuole agganciarsi alle belle iniziative perché ha bisogno dei valori forti che costituiscono la community. Quindi ribadisco che a mio parere la pubblicità non è assolutamente un nemico.

Che cosa pensa della pressione del marketing sul lavoro interno delle redazioni e in che modo la collaborazione tra redazione, pubblicità e marketing può essere proficua e non diventare lotta tra poteri?

È fondamentale che si crei sinergia proprio nel modo appena indicato. Il marketing lavora in armonia con me perché ha bisogno del messaggio forte e io imparo dal marketing come alcuni temi abbiano un valore commerciale, in questo modo miglioro il margine della testata.

L’intelligenza artificiale nel giornalismo, quanto e in che modo può essere innovativa, e quali sono gli scenari positivi o negativi a cui andremo incontro?

Io credo molto nell’intelligenza artificiale, penso che ci sia poco di negativo. Il negativo, se vogliamo, è più un tema legato alla violazione della privacy, ma di positivo c’è tanto, in particolare per il giornalismo di inchiesta dei quotidiani. L’intelligenza artificiale infatti, ci permetterebbe di fare tutto quello che non riusciamo a fare oggi semplicemente perché non abbiamo gli strumenti per processare dati ad altissima velocità. Le grandi inchieste del passato, pensiamo al famoso film Spotligh, venivano fatte perché c’erano i soldi per pagare giornalisti che lavorassero tre mesi su un progetto. Oggi questa cosa non è possibile, però quei tre mesi potrebbero diventare tre giorni con un programmino di intelligenza artificiale. In questo contesto, però, più che di intelligenza artificiale parlerei semplicemente di tecnologia basica, perché l’intelligenza artificiale è presente poco nel giornalismo, ma molto più nella vendita. All’estero ci sono esempi straordinari di tecnologia avanzata con cui si potrebbe fare tantissimo. In Italia tuttavia è praticamente inesistente ed è un peccato, perché non stiamo lavorando abbastanza su questo sistema e secondo me le potenzialità potrebbero essere grandi.