La voce di Chimamanda Ngozi Adichie

A tutti gli amanti della narrativa, specie di quella oltreconfine, segnalo le opere di Chimamanda Ngozi Adichie, autrice nigeriana di notevole impatto mediatico. Ho letto in successione tre libri di questa scrittrice che apprezzo per la semplicità e la poliedricità con cui comunica la storia di molte Afriche nonché le questioni legate ai diritti umani, con particolare riferimento all’uguaglianza di genere. Chimamanda testimonia il disagio sociale, politico ed economico, ma anche le dinamiche storiche, etniche e di costume, oltre la percezione di una prospettiva unica legata ai luoghi comuni. Dà voce, in particolar modo, al desiderio di riscatto sociale del paese più popoloso e più controverso del continente africano, la Nigeria, patria di grandi scrittori, di importanti figure del mondo dell’arte e della cultura, e allo stesso tempo uno dei più corrotti paesi del mondo. Tra romanzi, saggi e una raccolta di novelle, nelle sue opere Chimamanda introduce riferimenti linguistici e culturali appartenenti all’etnia igbo, ardui nella traduzione, ma interessanti nell’adattamento linguistico. Non tralascia mai il sotteso riferimento alla diaspora, intesa come dispersione delle proprie tradizioni, che mutano ininterrottamente e assumono diversi significati. Sottolinea una cultura che diventa abbandono del costume, nella ricerca dell’adattamento e della conformazione in particolare al modello americano. In una congresso al TED, Chimamanda racconta di se: «Sono stata una lettrice precoce e quelli che leggevo erano i libri per bambini britannici e americani. Sono stata anche una scrittrice precoce e quando ho iniziato a scrivere, più o meno all’età di sette anni, (…) scrivevo storie come quelle che leggevo. Tutti i miei personaggi erano bianchi con gli occhi azzurri. Giocavano nella neve, mangiavano mele e parlavano molto del tempo, di quanto era bello che fosse uscito il sole. Questo nonostante io vivessi in Nigeria, non ero mai uscita dalla Nigeria, non c’era la neve, mangiavamo manghi e non parlavamo mai del tempo perché non c’era bisogno (…) Tutto ciò è cambiato quando ho scoperto i libri africani». L’ibisco viola, il suo primo romanzo, è incentrato sulla storia dell’adolescente Kambili, che ricerca la sua indipendenza da una società corrotta, attraverso l’emancipazione dal padre violento, attivista politico e devoto cattolico. In particolare la storia di Kambili diventa atto di denuncia dell’integralismo cristiano nella Nigeria post coloniale. Nel romanzo A Metà di un sole giallo l’autrice affronta il tragico conflitto del Biafra attraverso la storia di Olanna e Kainene, due ragazze gemelle della borghesia nigeriana di etnia Igbo, irrimediabilmente coinvolte nell’orrore. Dal testo è stato tratto nel 2013 l’omonimo film del regista e scrittore nigeriano Biyi Bandele. Come si evince già da questi due romanzi, le opere di Chimamanda dipingono il contesto sociale con le vicende di donne appartenenti a diversi ceti, ciascuna espressione della propria identità di costume e del messaggio di riscatto trasmesso. L’ autrice rimodella il termine “femminismo”, ancorandolo al concetto di uguaglianza, si fa portavoce dei diritti umani, reclamando l’importanza dell’individuo senza alcuna distinzione di genere. Interviene a più riprese sul tema per mezzo di conferenze e scritti e, infine, enuncia quegli stessi principi nella sua nuova opera Cara Ijeawele, pubblicato nel marzo 2017, ultimo dei libri che ho letto. In questo intenso pamphlet, scritto sotto forma epistolare, interpellata da una sua amica d’infanzia su come crescere una bambina femminista, individua quindici regole principali e le argomenta annullando gli stereotipi di genere. Con voce confidenziale e politica, esprime un giudizio imprescindibile di umanità e universalità. “«Perché sei una femmina» non è mai una buona ragione. In nessun caso”. Ad una prima lettura, tali preconcetti potrebbero sembrare conquiste scontate per il mondo occidentale. Tuttavia Chimamanda smonta abilmente questa presunzione e foggia la nozione di “femminismo light” con cui indica lo stato di un’uguaglianza femminile condizionata dagli uomini, precisando: “Il Femminismo Light usa il linguaggio del «permesso». Theresa May è il primo ministro britannico, ed ecco come un giornale progressista inglese ne descrive il marito: «Philip May è noto negli ambienti politici come l’uomo che si è seduto in disparte permettendo alla moglie, Theresa, di rifulgere». Permettendo. Proviamo a rovesciare la situazione. «Theresa May ha permesso al marito di rifulgere». (…) Se fosse Philip May il primo ministro, forse di lui direbbero che la moglie lo ha «sostenuto» (…) ma a nessuno verrebbe in mente di dire che ha permesso a lui di «rifulgere». «Permettere» è una parola problematica. «Permettere» sa di potere”. Chimamanda in definitiva, non cade in luoghi comuni, ma spiega la parità ancorandola alle esperienze che iniziano fin dalla più tenera età. Come l’organizzazione dei giocattoli fatta in base al sesso e non in base al tipo, per esempio. Perché scegliere di regalare un elicottero a un bambino o una bambola a una bambina e non viceversa? Ancora, tra i consigli voglio sottolineare uno che reputo fondamentale. Quello che indica alla genitrice di insegnare alla sua bambina l’amore per la lettura attraverso l’esempio, sottolineando in tal modo la necessità di leggere d’avanti ai propri figli.